DI MATTEO PARRINI
Nell’alta valle dell’Esino, posta nel bel mezzo di un’ampia vallata tra i monti appenninici, sorge Matelica, città nota al grande pubblico quale patria di Enrico Mattei.
Prima ancora che per le opere d’arte che racchiude, Matelica merita di essere vista ed ammirata in se stessa, come esempio, raro e prezioso, di un centro che, nonostante le tante vicende storiche e distruzioni subite, è riuscita a custodire e mantenere memoria di culture e tradizioni antichissime, rinnovatesi alla luce del cristianesimo e delle innovazioni avvenute nel tempo.
La stessa struttura urbana è rimasta sostanzialmente quella romano-medievale, che insiste su quella precedente dell’oppidum fondato su una collina di origine alluvionale attorno al V secolo a.C. da popolazioni di etnia umbra che qui hanno lasciato importanti tracce archeologiche risalenti al periodo compreso tra VIII e VII secolo a.C.
Tra i reperti archeologici, ce n’è uno di epoca romana che assume un ruolo di rilievo, è il Globo di Matelica, oggi custodito nel Museo Piersanti. Si tratta di un orologio solare sferico, unico nel suo genere e databile al II secolo secolo d.C., rinvenuto nel 1985 durante i lavori di consolidamento delle fondamenta del Palazzo del Governo, edificio che si affaccia sull’attuale piazza Enrico Mattei, corrispondente grossomodo all’antico foro romano.
Come spiega il matelicese Danilo Baldini, che lo scoprì e ha sostenuto le attività di studio del reperto, «è una sfera di marmo bianco cristallino, del diametro di circa 30 cm, sulla quale sono incisi linee, cerchi concentrici, lettere e parole appartenenti all’antico alfabeto greco.
Era un geniale strumento per osservazioni e calcoli astronomici, astrologici e cronologici, in grado di indicare, con buona precisione, le ore del giorno dal sorgere del sole, il calendario, le date dei solstizi e degli equinozi, l’entrata nelle varie costellazioni dello zodiaco, la durata del giorno e della notte nelle varie epoche dell’anno».
Matelica però conserva anche le tracce di una profonda e antica fede cristiana, documentando la presenza di una diocesi fin dal V secolo d.C. ed un santo patrono, Adriano di Nicomedia, di chiara origine bizantina.
Nell’epoca medievale fino all’alba dell’età moderna la vallata fu un potente fulcro religioso, con la potente abbazia di Santa Maria de Rotis prima e con l’arrivo poi degli ordini mendicanti di eremitani agostiniani e francescani, nonché con il primo eremo dei cappuccini a Braccano.
Fra il Duecento ed il Trecento inoltre la città ebbe i suoi tre santi: il crocifero San Sollecito, il francescano Beato Gentile Finaguerra, la Beata Mattia Nazzarei, particolarmente venerata da tutti i matelicesi ancora oggi a 700 anni dalla morte. Non sorprende allora sapere che all’arrivo delle truppe francesi nel 1798, Matelica contava circa ottomila abitanti e ben 90 luoghi sacri tra chiese e cappelle. Con l’età medievale la comunità manifestò anche una forte spinta autonomistica, istituendo fin dal 1160 il libero Comune ed accrescendo il proprio potere economico grazie allo spirito imprenditoriale ed alla produzione di pregiati pannilana che per secoli furono venduti in molti paesi europei, dalla Venezia dei dogi fino alla Russia degli zar.
Matelica, insignita del titolo di Città nel 1753 da papa Benedetto XIV e sede diocesana dal 1785, è però anche un centro federiciano, anzi come ricorda lo storico Romualdo Castelli, «si attaccò talmente a Federico II e a Manfredi, da perdere l’amicizia e la protezione del pontefice». Come negarlo? In fondo la stessa città che conosciamo oggi è figlia di quell’epoca, nonostante la distruzione subita nel 1176 dalle truppe di Federico Barbarossa.
Infatti, Matelica fu rasa al suolo da una lega di città marchigiane nel 1198 con la popolazione dispersa per un decennio, e fu solo l’imperatore Ottone IV di Brunswick con un diploma del 12 ottobre 1209 a permetterne la ricostruzione, in cambio del sostegno nella lotta che in quegli anni conduceva contro il papa ed il giovane antagonista Federico II. Anni dopo non restò che allinearsi al nuovo imperatore e sul confine con la guelfa Camerino si ebbe un presidio militare permanente di «Theotonici». Insieme con Manfredi i matelicesi per l’unica volta nella storia conquistarono Camerino e le sottrassero parte del territorio. In questa lotta con la Chiesa ed il papa Innocenzo IV, i matelicesi arrivarono a distruggere perfino l’episcopio, sito dove nel Quattrocento fu costruito Palazzo Ottoni. Gli esponenti federiciani più fedeli all’imperatore, come Giacomo Diotisalvi o Rainaldo da Brunforte, qui trovarono rifugio ed ottennero cariche pubbliche ben oltre la battaglia di Benevento (1266) e la fine del potere degli Svevi. C’è però qualcosa che ancora oggi parla di Federico II a Matelica: l’abbazia benedettina di Roti o ciò che ne resta. Qui i monaci cistercensi giunsero al tempo di Federico II e la distruzione del complesso avvenne nel 1311 al termine di un florido periodo per quel cenobio.
Posta in una vallata ai piedi del monte San Vicino, la verde vallata di Roti permette la sopravvivenza di numerose specie faunistiche che già un codice del 1276 vietava di cacciare con la tecnica del frastuono provocato battendo gli scudi e suonando la trombetta, perché causavano il sollevamento di centinaia di esemplari, danneggiando le nidificazioni e spaventando altri animali utili alla caccia come i falchi, tanto cari allo Stupor Mundi. «Nell’area di Roti – spiega l’ambientalista e guida ambientale matelicese Maria Cristina Mosciatti –, essendo in diversi periodi dell’anno assente la presenza umana, si possono osservare le stesse specie faunistiche che nel corso dei secoli, hanno convissuto con i monaci rispettando ognuno il proprio ruolo nel territorio come il lupo, la volpe, il capriolo, il cinghiale, la lepre, il tasso, l’istrice, mentre, indisturbata, è possibile veder su questo cielo la poiana comune, il biancone, il picchio rosso maggiore, il picchio verde, il falco pellegrino, il gheppio comune, la starna, il fagiano comune, l’allocco, la civetta e il gufo reale. La valle di Roti è un bellissimo scenario naturale, sembra, che il tempo si sia fermato all’epoca dei primi insediamenti monastici».
Un gruppo di guide attrezzate accompagnano i visitatori alla scoperta di questi splendidi scenari, con le sue tre principali emergenze geologiche di natura calcarea. «Meritano una visita – afferma la Mosciatti – la gola di Jana, ricca di biodiversità, una forra con strette pareti e vari salti di roccia che formano delle meravigliose cascate; la Bocca de Pecu, un piccolo ‘canyon’ caratterizzato da formazioni rocciose con una serie di cavità separate da stretti cunicoli, le cui pareti sono state scolpite dall’acqua; il Sasso Forato, che è una frattura tra due rocce prodotto dallo scorrimento delle acque, un suggestivo varco naturale, posizionato nel versante occidentale del Monte San Vicino».
Per il visitatore è tutta una scoperta, da completare con un calice del “Matelica” il Verdicchio, che all’olfatto è fragrante, fine, fresco e fruttato.